Le Strade Percorse: Via Castellana



Avevo poco più di sette anni, e me ne stavo a giocare in mezzo alla strada, in Via Castellana, davanti la centrale telefonica della SEAT, la società telefonica di allora. Si sentivano i relè che scattavano di continuo dando in automatico la linea a questo e a quello.
Mia madre gestiva il posto telefonico pubblico, ed io in cambio di qualche cinquanta lire, andavo a lasciare gli avvisi telefonici.
Prima della mia famiglia il posto telefonico pubblico si trovava in quella che è rimasta ancora oggi Via Telegrafo, ed era gestita da una giovane, Mimma.
Una cosa che mi è rimasta nella mente è il rapporto di lei con un ratto. La quale quando si mangiava il panino porgeva delle molliche al ratto che se ne stava davanti a lei con le zampine anteriori alzate. Ho saputo poi che per il dispiacere di un amore andato a male, Mimma è diventata completamente cieca.
Rifletto spesso come l'amore può fare male alle persone, e se è giusto, oppure no, pretendere che un rapporto completamente animale, sia stato umanizzato così, tanto da alienarlo da ciò che oggettivamente è. Forse è più giusto non pretendere così tanto da una emozione e chiamare tutto con il proprio vero nome.
In quel giorno di afa, estiva, andai al Palazzo Agnello a consegnare un avviso di chiamata telefonica, proprio una salita di un centinaio di metri, prendendo per la Via San Francesco.
Nel palazzo vi erano sempre ospitati gente di fuori, gente importante, artisti, ospiti degli Agnello eredi del vecchio barone. In quel pomeriggio in Via Castellana, accanto alla centrale, vi erano parecchie donne, che lavoravano e chiacchieravano. C'era chi ricamava, chi allistiva, chi stirava con i ferri a carbone.

Mi ricordo uno scherzo veramente cattivo che ordivo, nonostante la mia tenera età, era quello di arroventare una moneta nel carbone in quei ferri da stiro e poi prendendola con cautela in un fazzoletto, andavo a comprare qualche liccumaria in una putiara, le mie vittima preferite erano le sorelle M. Le quali avevano la piccola bottega proprio di fronte la centrale telefonica. Perché erano le mie vittime preferite? Perché non avevano fiducia a nessuno e quei soldi li guardavano attentamente più di una volta, rigirandoli di qua e di là, dopo averli afferrati dalla tenera mano di noi bambini.
In quel tempo giravano ancora le monete del Regno d'Italia, con la testa di Vittorio Emanuele III, se non ricordo male, di 20 centesimi, somigliavano sia di misura che di materiale alle 50 lire, così spesso ai commercianti si ci trafilava qualche vecchia moneta fuori corso.
La sorella più giovane mi afferrò a volo quella moneta surriscaldata, del Regno d'Italia e se la strinse nel pugno, urlò come una forsennata. Mi scaricò mille parole ed io mi sono goduto tutta la scena in attesa che girasse il bancone per afferrarmi, tempo ce ne voleva, pesante come era.
Negli anni sessanta in ogni quartiere vi era almeno una putja, una specie di piccolo emporio, dove non si pagava quasi mai in contanti, ma solo a credito e una volta tanto si saldava il conto. Tutto aveva una dimensione umana. Nelle vie principali invece vi erano i negozi più grandi, più forniti, con i prodotti che si vedevano su Carosello. Ricordo in particolare in Via Guglielmo Marconi, all'angolo di Via Fontanelle, la putja di Di Bella, poi gestita dal figlio Giugiu. Lui sempre con il camice bianco e affettava i salumi usando la pinza. Aveva una vetrina dove spesso metteva la cartellonistica di marchi, appunto, propagandati. Noi bambini guardavamo quello che era realtà virtuale della televisione nella nostra realtà quotidiana.


Gli ospiti del palazzo Agnello

Ritorniamo in quel giorno di calura con le donne tutte fuori, sedute a lavorare mentre la frescura dell'ombra le allietava. Scese questa donna, quella del Palazzo Agnello, che io le avevo dato l'avviso di chiamata, vede tutta quella bella compagnia e incuriosita e deliziata osserva i particolari. Era vestita con una veste leggerissima, coloratissima, larga senza cinta e sopra il ginocchio, insomma per quel tempo era una vera sfrontatezza ... Forse voleva chiedere dove fosse il posto telefonico pubblico, ma non fece a tempo ad aprire la bocca che le donne più anziane farfugliarono qualcosa tra di loro, si diedero due occhiate e con una girata di testa alle altre comandarono la ritirata. In un batter d'occhio si infilarono sedie, biancheria e ferri da stiro tutti dentro e chiusero la porta, lasciando sola in mezzo alla strada, la povera forestiera con tre palmi di naso, la bocca aperta e gli occhi sgranati dall'incredulità di ciò che era successo.

Mi feci avanti e gli indicai il centralino. Lei entrò, sbraitando: 
- "No! Ma cosa da matti! Io vado via da questo posto!"
- "Signora Monica Vitti, che onore averla qui!"
- "Non posso crederci, lei mi ha riconosciuto?!"

Mia madre aveva riconosciuto quella bravissima e famosissima attrice perché costretta a stare ferma lì dentro la centrale leggeva qualche Grande Hotel (rivista ancora oggi in pubblicazione), poi era una dei pochi ad avere la televisione e qualche film a cinema, con mio padre che iniziava ad impiantarsi come radiotecnico, ogni tanto, se lo potevano permettere.
Monica Vitti era esasperata per la calura insostenibile, per l'acqua che in quel periodo mancava per decine di giorni. Mia madre racconta ancora oggi che ha rifiutato il ruolo principale di "Sedotta e Abbandonata" il film di Pietro Germi girato in parte a Siculiana. Mi ha chiese se le andassi a prendere una Coca Cola. Io scesi, nella parallela via Marconi, dove vi era il bar Trinacria, allora gestito da Peppi Dragu. Lei per ringraziarmi mi offrì un gelato che mi gustai pienamente. Così l'attrice attese la telefonata e la sentimmo urlare a più non posso. Quando uscì disse a mia madre: "Io, da Siculiana non ci passerò più, nemmeno con l'aereo!" Scappò letteralmente, tanto che dimenticò il portafogli nella cabina telefonica. Quando mia madre se ne accorse lo conservò. Dopo qualche giorno l'attrice telefonò da Messina. Mia madre confermò che lo aveva dimenticato lì e che lo teneva al sicuro per lei. A ritirarlo venne poi Alberto Lupo (attore e conduttore televisivo), portandole come ringraziamento una foto di Monica Vitti con tanto di grazie. Da allora non si hanno notizie di un suo ritorno nel nostro paese.

Il 17 agosto del 2006 nella pagina cultura del quotidiano "La Repubblica", scopro nell'articolo "Tutti a cena con Moravia" e per cappello "Dacia Maraini: quell'agosto a Sabauda", leggo:
"Più di rado arrivavano Michelangelo Antonioni e Monica Vitti. Con loro, qualche estate prima, avevamo trascorso una vacanza a Siculiana, nell'Agrigentino, facendo amicizia, fra gli altri, con il barone palermitano Francesco Agnello, musicologo raffinato e anfitrione dei primi raduni del gruppo 63".
Francesco Agnello, quarto degli undici figli del barone Francesco e Anna Spoto, già a Palermo frequentava la casa in corso Scinà di Bebbuzzo Sgadari, grande appassionato di generi e sperimentazioni musicali e uomo di grande apertura culturale, insieme ad un gruppo di appassionati della musica. Questi si riunivano per ascoltare della buona musica e per degli scambi culturali con gli intellettuali di passaggio.

Proprio in una di queste riunioni nel 1952 conobbe lo scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I due strinsero una sincera amicizia, tanto che lo scrittore fu ospite a Siculiana mentre stava stendendo il quarto capitolo de "Il Gattopardo". Lo scrittore con la sua immensa cultura influenzò non poco il giovane Francesco Agnello, insieme a gli altri amici Gioacchino Lanza e Francesco Orlando. Francesco Agnello coltivò la sua passione per la musica e fu uno dei fondatori dell'Associazione Amici della Musica il quale donò la sede in un locale del Palazzo di Siculiana.

In una pubblicazione patrocinata dall'Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo di Agrigento "AG 63", vi è ancora un'altra traccia di questa visita dell'attrice Monica Vitti a Siculiana ospite di Francesco Agnello insieme a Dacia Maraini, Enzo Siciliano, Michelangelo Antonioni e Alberto Moravia. Dove si legge che sono rimasti diversi giorni. Il giornalista di questa pubblicazione è venuto a intervistare gli ospiti famosi del Palazzo Agnello e riesce a dare una splendida descrizione del gruppo.
Racconta che, nell'afa di quell'agosto il gruppo oltre ad andare curiosando per le strade e stratuzzi del paese, oziavano, giocavano a carte, chiacchieravano e cucinavano. Io aggiungerei che erano dei veri specialisti di piatti particolari, come ha descritto la scrittrice Dacia Maraini.
Mentre descrive:
Alberto Moravia, sdraiato su una poltrona, senza scarpe, con una camicia azzurra sbottonata, le mani che roteano nell'aria quasi a provocare un alito di vento.
Fu proprio in questa intervista che Moravia disse su Siculiana:
"Un paese perfetto, nato dalla terra; questa è Siculiana, un centro povero ma calmo, non intaccato dall'industrializzazione ... I tetti di Siculiana mi hanno colpito per la loro impressione cubista ... c'è un caldo quasi soffocante ... è come se il paese intero respirasse e dalla mia camera riesco a cogliere le frasi pronunciate da ogni passante potendolo sentire mentre agisce e si muove fra cose amiche che non privano di genuinità il suo fare".
Lo scrittore stava allestendo il romanzo ambientato a Roma "L'Attenzione", edito poi nel 1965. Il giornalista narra che:
Monica Vitti, guardava il panorama dalla facciata nord del palazzo ed ebbe a dire: "Le case sono tutte belle, sembrano di sabbia rossa, e di sera, quando le mille luci si accendono, il paesaggio diventa irreale"[1].
Quindi, mi viene da pensare che quel giorno in Via Castellana, Monica Vitti era arrivata al culmine della sopportazione ed era letteralmente fuggita da Siculiana.


Il Palazzo Agnello e la ferrovia

La centrale telefonica, era accanto l'abitazione di mio nonno materno Alfonso. Casa umile, come le altre in tutto il quartiere, però ha ancora un portale architettonico di tutto rispetto, da sembrare l'ingresso di un edificio pubblico, di qualche istituto.

Mi ha sempre incuriosito. La curiosità spinge la ricerca e così sono venuto a sapere che quello era l'ingresso del terzo palazzo signorile della famiglia Agnello, separato solo dalla Via San Francesco a sud/ovest dal Palazzo Alfani e a ovest dal Palazzo Agnello. Confina così a sud con la scalinata per Via San Francesco.

Indicato con "L" nella raffigurazione della cartina, già indicato da una brochure, del Comune di Siculiana anno 1995, come Palazzo Agnello sec. XX rimaneggiato. Questo palazzo signorile è strettamente collegato alla storia della ferrovia. Il governo italiano con la Legge portante provvedimenti per l'esercizio delle ferrovie dello Stato del 12 luglio 1906, n. 332, approva la realizzazione del tratto ferroviario da Castelvetrano ad Agrigento a scartamento ridotto.
I lavori di costruzione cominciarono quasi subito dopo l'emanazione della legge. Il 16 dicembre 1911 viene aperto il tratto da Porto Empedocle a Siculiana e il 26 febbraio 1917 da Siculiana a Ribera. Il 2 luglio 1923 la linea si completò.

Il declino di questa ferrovia inizia quasi subito dovuto ad una politica a favore della strada gommata e del mezzo privato, così avviene l'obbligo di auto fornirsi perché senza alcun investimento e ammodernamento la ferrovia è diventata antistorica.
Noi studenti delle scuole medie superiori andavamo ad Agrigento così pendolari venivamo contribuiti dal comune per viaggiare sulle linee dei bus della ditta Lumia. Mi ricordo che nell'anno scolastico 1976-77 vi furono degli scioperi degli operatori della ditta Lumia, per questo motivo, abbiamo dovuto viaggiare con la linea ferrata, ancora munita delle littorine. Nostro malgrado perché dovevamo svegliarci prima e il viaggio si presentava abbastanza più lungo.
Le istituzioni, invece di intraprendere un ammodernamento del mezzo pubblico per incentivarlo e realizzare così una economia ecologica e reale, nel 1978 chiude anche il tratto Ribera - Porto Empedocle, con la solita motivazione dello scarso traffico passeggeri. Anche se quello merci aveva visto anche un sensibile aumento.

Le ferrovie chiamano "rami secchi" questi tratti, che secchi non sono, e intanto taglia. Oggi di quell'albero è rimasto solo i tronconi principali, pronti ad essere abbattuti. Questo riporta il concetto che, come scrisse Mussolini: "... le ferrovie sono lo specchio di una Nazione". Frase che prima si trovava nei muri delle stazioni come propaganda fascista e che ho tratto dal libro "Le ferrovie dello stato nel primo decennio fascista", Edizione Istituto Geografico De Agostini S.A. Novara – Anno 1932. Frase che Mussolini ne fece un motto considerando la ferrovia il biglietto di visita del regime, adeguando la linea ferrata all'ammodernamento e ad una visione omogenea ottenendo oltre a un risultato economico in equilibrio, il rispetto assoluto degli orari e un acceleramento dei servizi. Oggi guardando le strade ferrate siciliane, c'è da pensare che sono lo specchio di una Nazione, ahimè, colonizzata!

Mentre la ferrovia veniva costruita nei tratti di collegamento per Siculiana, si servirono per il brecciame delle cave di pietra lungo il percorso di proprietà del barone di Siculiana Agnello Francesco (1859-1940), sindaco dal 1910 al 1914. Il quale invece di una ricompensa in denaro ha preferito stilare un accordo per la costruzione del palazzo in questione.
Un architetto napoletano (?) lo ha progettato. Doveva avere quaranta stanze più gli accessori e proprio all'ingresso doveva esserci un atrio con una grande scala a chiocciola.
Il portale è stato scolpito dal mastro intagliatore di pietra Alderighi. Era fratello di una grande conoscenza di noi siculianesi: l'indimenticabile suor Linda dell'Istituto Sacro Cuore. Una religiosa dalla forte personalità, ma dalle ottime qualità caratteriali. Lei poteva permettersi di tirare le orecchie a parecchie generazioni perché ci conosceva da quando eravamo bambini.
Il palazzo rimase incompleto perché nessuno dei figli del barone mostrava l'interesse di stanziarsi a Siculiana.


I residenti di Via Castellana

Questa via, prima si chiamava Via Vittorio Emanuele e si prolungava fino al ponte per la stazione ferroviaria, è stata intitolata in questo modo in onore del poeta Castellana, insegnante di lettere classiche al Liceo Empedocle di Agrigento.
Quello che sono venuto a conoscenza è solo per sentito dire e non so nemmeno da chi. Il professore Castellana scriveva poesie in latino e in greco, e da quanto ho appreso, erano opere di vero riguardo, solo che ad un certo punto della sua vita, prese tutto ciò che aveva scritto, libri e fogli vari, li mise al centro della strada, li bagnò con il petrolio del primus e ne fece un tragico falò.
Cosa sia scattato al poeta? Sicuramente l'unica traccia della sua arte è il racconto di questo fuoco, visto che non è rimasto altro. Certo avrà scritto soprattutto per se stesso, per l'appunto, ancor più ci manca il suo pensiero, la sua opera come una incognita incolmabile. Anche quel fuoco è poesia.

La Via Castellana della mia infanzia aveva le gabbie delle galline davanti le case, la sera arrivavano i contadini con le loro bestie, cane, capra e mulo o asino. Vi era il marito della zia Rosa la Lauriata, nomignolo che in paese si dà ad una parte dei Gagliano, perché poi vi sono i Giammaria e i Ciò. Questo signore aveva il carretto, che parcheggiava proprio davanti il portale del palazzo, dove la strada si allargava. Questo carretto non aveva rappresentazioni artistiche di nessun genere, però aveva un'ottima lavorazione in ferro e in legno. Mi ricordo che spesso andavo a rifugiarmi sotto, quando pioveva o semplicemente per giocare con gli altri bambini. Questo ricordo mi fa guardare indietro un mondo passato molto lontano, quasi arcaico, eppure è stato solo quasi mezzo secolo fa. M*****a, mezzo secolo!
Una volta il figlio della zia Rosa Laureata è arrivato dalla America, ma non come gli altri con la valigia, ma con la sua auto gigantesca che passava appena per la Via Guglielmo Marconi. Ha voluto mantenere il primato del padre in quella Via Castellana. Sicuramente gli sarà costato, andata e ritorno con quell'auto, ma vuoi la soddisfazione delle bocche aperte e gli occhi sgranati dei paesani?

Abitava pure u zz'Affonziu Tammureddu, mastro pregevole, aveva la falegnameria in Via Marconi ed io ero affascinato dai giocattoli in legno che costruiva alla figlia, mia coetanea, Liliana. E la moglie gentilissima più di una volta mi ci lasciò giocare. Proprio in una di queste occasioni, l'arciprete Cuva, non so come, forse per la benedizione delle case, passò da lì, e diede a Liliana una medaglina. Io fu preso dall'invidia, anche perché nemmeno mi considerò, ed ho espresso una frase per svalutare quel regalo:

- "Chistu oru cacatu è!"

Tradotta letterariamente significa che la medaglia era placata in oro, che non era d'oro vero. Ma fui fortemente rimproverato dall'arciprete. Quando ho insistito per difendermi, in malo modo intercalai:

- "Chi m*****a dissi? Ca è oru cacatu!"

L'arciprete passò alle maniere forti dandomi uno schiaffo e tirandomi fortemente un'orecchia. Pensai che il mondo era ingiusto, non solo non ero stato considerato dal prete, ma per avere espresso un semplice parere, ero stato oltraggiato e picchiato, davanti a gli altri e a Liliana. Da allora non andai più a giocare con quei splendidi giocattoli, perché mi vergognavo come un cane.

Comunque da quel giorno iniziò con l'arciprete un confronto che terminò tantissimi anni dopo, passarono più di trenta anni.

Un altro episodio rimasto vivo nei miei ricordi è stato il rimprovero di un certo burbero che più di una volta ci rimproverava perché seduti sul gradino della sua porta. Lui arriva con la sua doppietta e la cartucciera e gli dava fastidio vedere tre quattro ragazzi lì a giocare con le figurine dei calciatori a ciuciari (soffiare). Così quando fu più insolente delle altre volte e gridando ci minacciò pure, mio fratello Andrea, tre anni più di me, pertanto aveva nove anni, escogitò un piano.

Lui sapeva come entrare nel magazzino di la putja di lu zzu Affonziu Lauriatu. Una putja grande e ben fornita in Via Marconi. Poco più davanti, di fronte, in una piccola rientranza c'era il loro deposito. Questo magazzino era l'abitazione dove nacque Leonardo Butticè, eroe vittima dell'eccidio delle Cave Ardeatine a Roma, il 31 gennaio del 1921, secondo figlio di Pasquale e Sciarrotta Giuseppa quando ancora si chiamava Via Agnello Alfano al n°125.
Il progetto di mio fratello era di entrare da una piccola finestra che dava proprio a terra nella Via Castellana, entrando si doveva scendere, saltare, almeno due metri e passa. Poi entrando vi era una montagna di angurie che ci aspettavano. Le condizione poste da mio fratello erano, che potevamo mangiare a più non posso, però dovevamo liberarci lo stomaco all'occorrenza sul gradino del burbero cacciatore. Oltre me, accettò un certo Peppe Naschilordi, mio coetaneo, ora è emigrato in America.
Andrea forzò il portello ed entrò, saltò e poi mise delle casse per farci scendere agevolmente. Entrando in quella penombra, abbiamo mangiato, facendo strage di quei meloni. La salita fu più dura. Dopo poche ore quel gradino era così pieno da fare spavento. Quando lui parcheggiò la sua seicento e s'avviò verso casa, vide tutto quel mare di m***a, si mise ad urlare ad insultare tutti i vicini, minacciando che era pronto a sparare ed impugnando l'arma. Le finestre rimanevano chiuse senza risposta. Mai e poi mai poteva immaginarsi che tutto ciò era stata opera di alcuni bambini.


Aspettando il carosello

Mio padre si era acquistato un mezzo di lavoro una 500 Fiat Giardiniera. Una delle poche auto in paese, possiamo dire una conquista sociale. Ricordo le dormite che mi sono fatto dentro quell'auto anche sotto lo scrosciare della pioggia, insieme a mio fratello Andrea e mia sorella Rosa, in attesa che i nostri genitori chiudessero il negozio. Proprio in quel periodo il vicinato veniva a guardare la televisione, portavano le sedie da casa e assistevano ai vari spettacoli, film e commedie. Mi ricordo, aspettando Carosello, che guardando il telegiornale ho appreso della morte di Papa Giovanni XXIII e dell'elezione di Paolo VI nel giungo del 1963. Ricordo pure dell'assassinio di John Kennedy, anche perché percepii dai grandi l'attenzione a questo episodio.
Proprio in questo periodo mio padre fece la modifica ai giradischi delle radio bar, sostituiva il motorino a 78 giri per quello più moderno del 45 e 33 giri. Doveva modificare anche il mobile per adattare il piatto. Infine con tutti i motorini recuperati per natale costruì un presepe con le casette con le luci i personaggi che si muovevano tramite cigne realizzate con delle sezioni di camere d'aria di ruote d'auto. Ero così orgoglioso di mio padre ogni qualvolta arrivava qualcuno ad ammirare quel presepe che avevo la pelle d'oca.
Uno di questi motorini, qualche anno dopo servì come rotore di luci per una scena hippy alla festa della matricola, che organizzavano gli studenti universitari e di media superiore. Con una scatola d'osso d'impianti elettrici mise i contatti e una lamella di rame nell'asse del motore che girando apriva e chiudeva i contatti e permetteva l'accendere e spegnere delle lampade colorate in rotazione.

Poi l'azienda telefonica cambiò gestore e quella società fece un nuovo contratto con i miei genitori. La società Sip elettrica diventava Sip Società Italiana per l'esercizio telefonico, e incorporava la Stet e le altre 5 concessionarie divenendo monopolista nazionale.

Dovevano spostarsi e lasciare libera la centrale anche perché l'utenza era sensibilmente aumentata e avevano bisogno di nuovo spazio. Così il negozio e il laboratorio fu spostato in Via Ospizio, dove già abitavamo. Io e mio fratello Andrea dormivamo dove vi era l'esposizione del negozio con il posto telefonico pubblico, pertanto il nostro divano letto lo potevamo aprire quando i clienti erano tutti andati via. Il laboratorio invece dove vi era pure la cucina e ci mangiavamo in attesa di affittare un nuovo locale. Ma mio padre in quella casa così piccola ha avuto l'ardire di stampare dei volantini che strillavano:Venite a visitare i grandi magazzini della ditta Vella in Doria!

di Alphonse Doria