Nel 1898 il milanese Luigi Vittorio Bertarelli (tra i fondatori Touring Club Italiano) girò la Sicilia in bicicletta annotando le sue impressioni. La “passeggiata ciclistica” iniziò a Messina, proseguì lungo la costa ionica fino a Catania, quindi Siracusa, Palazzolo, Caltagirone, S.Cataldo, Girgenti, Segesta, Castelvetrano.
Nel tentativo di raggiungere Ribera, a causa di un problema con la bicicletta, Luigi Vittorio Bertarelli fu costretto a fermarsi a Siculiana: inizia così il racconto dettagliato di quella giornata.
Nel tentativo di raggiungere Ribera, a causa di un problema con la bicicletta, Luigi Vittorio Bertarelli fu costretto a fermarsi a Siculiana: inizia così il racconto dettagliato di quella giornata.
Alla ricerca di vitto e alloggio
Era troppo tardi per giungere a Ribera. Entrando a Siculiana, mi dissi con un segreto spavento: qui passerò la notte. Prima però bisognava trovare posto, e non fu affare di poco momento. Una persona dall'aria civile, che vidi sulla porta dell'Ufficio del Registro, mi indirizzò a un certo Mangione, il migliore sito di Siculiana. In mezzo a un esercito di ragazzi cenciosi, che gridavano d'allegria e sgambettavano quasi tra le ruote, arrivai in un cortiletto, salii una scaletta, sboccai in una stanza nuda, con una branda in un angolo, senza saccone né lenzuola e una sedia.
Una vecchia mi disse che il cavaliere Mangione (cavaliere?) non c'era ed essa non mi poteva dare alloggio senza permesso del padrone. Sarebbe andata a cercarlo. Io intanto lavorai alla mia pompa, e dopo averla ben studiata mi decisi a una certa operazione, che, se fosse andata male, mi avrebbe lasciato a piedi del tutto. Mi andò bene, ed ebbi la soddisfazione di sentire il sibilo dell'aspirazione ristabilito. Tirai il fiato anch'io!
Mezz'ora dopo giunse la mia vecchia: niente alloggio e niente da mangiare. E allora?
Vado fuori impensierito e mi indicano la "locanda", l'unica di Siculiana.
La locanda è un androne terreno senza finestre, aperto sulla strada con un gran portone.
Questo antro cieco é profondo quindici metri.
I due terzi, verzo il fondo, servono di stalla e una domina di muli; il terzo anteriore è un pandemonio di legna, fieno, paglia, cesti, otri, giarre, due capre e un fornello da un lato. In mezzo a questo diavolìo passano i muli per entrare in stalla... e lasciano abbondanti traccie. Vedo anche un'orrenda megera sgangherata, spettinata, stracciata, più sporca dell'immondezzaio in cui si agita. Povere scimmie! Chi mai vi calunniò tanto dicendo che l'uomo, e quindi la donna, deriva da voi?
Eppure quella era l'ostessa che doveva colle sue luride mani cucinarmi il pranzo!
Ci volle una mezz'oretta a combinare il menu: pasta, ovo e patate, uva... e basta.
Intanto che si stava per disporre il pranzo, mi tardava vedere la camera e portarvi la macchina. Mi condussero nell'antro, fin quasi in fondo. Io credeva di asfissiare nel fetore! Poi, su per una scaletta di legno, a una stanzetta sui tetti, che serviva, colla scala, di sfiatatoio alla stalla.
C'era, là dentro, un magazzino di canne, di otri, di lanterne; delle lunghe filze di caciocavallo, tre o quattro galline che fuggirono dalla finestrella sul tetto, una sella di mulo, dei basti e, in un canto, una branda con un saccone tutto cavo nel mezzo. Ma, sopra-tutto, c'era un puzzo ammorbante di stalla e di pollaio.
- Sgombrate, lavate, scopate, pulite, o porci animali! Pagherò quello che volete, ma cambiate questa stalla di Augia! Fortunato Giobbe sul letamaio: lui, almeno, era all'aria aperta!
Non m'intesero neppure. Scesi scorato. Quasi mi parve che anche la bicicletta si volgesse indietro, verso di me, coll'aria di chiedermi: mi lasci in questo brago?
Una vecchia mi disse che il cavaliere Mangione (cavaliere?) non c'era ed essa non mi poteva dare alloggio senza permesso del padrone. Sarebbe andata a cercarlo. Io intanto lavorai alla mia pompa, e dopo averla ben studiata mi decisi a una certa operazione, che, se fosse andata male, mi avrebbe lasciato a piedi del tutto. Mi andò bene, ed ebbi la soddisfazione di sentire il sibilo dell'aspirazione ristabilito. Tirai il fiato anch'io!
Mezz'ora dopo giunse la mia vecchia: niente alloggio e niente da mangiare. E allora?
Vado fuori impensierito e mi indicano la "locanda", l'unica di Siculiana.
La locanda è un androne terreno senza finestre, aperto sulla strada con un gran portone.
Questo antro cieco é profondo quindici metri.
I due terzi, verzo il fondo, servono di stalla e una domina di muli; il terzo anteriore è un pandemonio di legna, fieno, paglia, cesti, otri, giarre, due capre e un fornello da un lato. In mezzo a questo diavolìo passano i muli per entrare in stalla... e lasciano abbondanti traccie. Vedo anche un'orrenda megera sgangherata, spettinata, stracciata, più sporca dell'immondezzaio in cui si agita. Povere scimmie! Chi mai vi calunniò tanto dicendo che l'uomo, e quindi la donna, deriva da voi?
Eppure quella era l'ostessa che doveva colle sue luride mani cucinarmi il pranzo!
Ci volle una mezz'oretta a combinare il menu: pasta, ovo e patate, uva... e basta.
Intanto che si stava per disporre il pranzo, mi tardava vedere la camera e portarvi la macchina. Mi condussero nell'antro, fin quasi in fondo. Io credeva di asfissiare nel fetore! Poi, su per una scaletta di legno, a una stanzetta sui tetti, che serviva, colla scala, di sfiatatoio alla stalla.
C'era, là dentro, un magazzino di canne, di otri, di lanterne; delle lunghe filze di caciocavallo, tre o quattro galline che fuggirono dalla finestrella sul tetto, una sella di mulo, dei basti e, in un canto, una branda con un saccone tutto cavo nel mezzo. Ma, sopra-tutto, c'era un puzzo ammorbante di stalla e di pollaio.
- Sgombrate, lavate, scopate, pulite, o porci animali! Pagherò quello che volete, ma cambiate questa stalla di Augia! Fortunato Giobbe sul letamaio: lui, almeno, era all'aria aperta!
Non m'intesero neppure. Scesi scorato. Quasi mi parve che anche la bicicletta si volgesse indietro, verso di me, coll'aria di chiedermi: mi lasci in questo brago?
Fisionomia serale e notturna di Siculiana
Dopo di avere anticipato alla megera il denaro per la spesa, mi sedetti sul portone ad aspettare. Il sole era caduto, e sul crepuscolo tutti, dopo il lavoro dei campi, tornavano a casa da cinque, dieci chilometri di distanza.
E' un ritorno pittoresco; mi fece dimenticare le prossime ansie culinarie e notturne.
Entrano file di tre, di cinque, di dieci muletti montati da donne sedute o che inforcano gli arcioni, da uomini con un ragazzo davanti, perfino da tre ragazzi contemporaneamente. Alcuni trottano, e alla coda del mulo sono attaccati colla mano del ragazzi che vengono così di lontano trottando pedestremente accanto al padre. Altri sono accompagnati da asinelli o cavallini poppanti, allegri e stupidelli. Chi porta giarre d'acqua, chi otri di vino, chi fasci d'erba secca o lunghe canne dei fiori d'aloe, chi cesti di fichi d'india.
Certi cantano, la mano sulla bocca, canzoni moresche lente e melanconiche come l'appello del muezzin. Passa qualche picciol gregge di capre saltellanti, che annusa i muri e lecca dove spera di trovare il salato; qualche raro carretto dalle imprese dipinte, qualche rarissimo pedone, il capo carico di pesi enormi. Corrono tra le gambe dei muli i ragazzi, a rischio di farsi calpestare, e dappertutto e un vociare continuo, confuso, sgarbato, incomprensibile, come di gente che ha d'uopo di gridare per farsi intendere, di dar di gomiti per farsi far largo, di urtare per attirare l'attenzione. E' tutto un mondo diverso dal nostro, più vivo, più grossolano, più violento: una tribù selvaggia di arabi trasportata in Italia.
Odo uno scalpitare di cavalli: entrano in paese due campieri fieramente impostati su dei superbi animali, col fucile attraverso l'arcione. Dieci passi dopo di loro, solo e senz'armi, un signore. Che dico signore? Un signorotto fiero, bello, provocatore, sprezzante: nulla da invidiare a Don Rodrigo. Poi più addietro ancora quattro sue guardie, armate, in montura sgargiante, anch'esse splendidamente montate. La cavalcata mi passa accanto di trotto serrato, senza curarsi di me, senza scansarmi d'una line. Io, che sono seduto, per un capello non vado le gambe all'aria.
Ah, se avessi avuto quel... barone tra le mani! Ma io solo, pare, mi sdegnavo della sua noncuranza per i piedi del prossimo. Tutti quanti si scansavano senza nulla dire, come noi davanti al tram che viene: si sa che dev'essere così! E mi parve anche che nessuno mostrasse ombra di rispetto o di risentimento. Il barone é d'un altro mondo, al quale non si appartiene né si può appartenere: lo stesso senso con cui suppongo i cani abbiano guardare noi uomini. Tale è il punto a cui si trovano queste popolazioni. Quanta strada ancora perché diventino coscienti!
Intanto alle mie spalle friggevano gli intingoli. I riflessi rosseggianti del fuoco sull'eterogenea accozzaglia oggetti raccolti nell'androne, sul profilo scarmigliato e angoloso della mia strega, e sul fondo, alla luce fumosa di una lampada le ombre dei muli alla greppia, avevano l'aria di una fosca pittura di Rembrandt o del Ribera. Il male si é che la strega non era un modello di quadro, ma bensì la mia cuoca.
Un grazioso incidente indirizzò, più dolcemente i miei pensieri.
Un agnello che passava in strada venne a leccarmi le mani. Povero pecorino ingenuo! Lo presi pel morbido vello accarezzandogli il mento umido. Drizzandosi, esso posò i piedini davanti, magrolini come di gazzella, sulle mie ginocchia, con un movimento vezzoso, allungando la linguettina rugosa per lambirmi il volto. Povero animaletto, che gentile idea ebbe mai, e quanto piacere mi fece, come se avesse anch'esso un'anima sensibile, in quel luogo così straniero a tutte le mie abitudini, ai miei pensieri, alle mie affezioni!
Quella sera mangiai di grande appetito, socchiudendo gli occhi per non vedere vivande, posate, tavolo e camera. Poi mi coricai dopo un'abbondante aspersione di razzia. Nella notte mi svegliai udendo rumore in stanza. Era l'incubo che mi fece due volte impugnare la rivoltella?
No, era positivamente un rumore udito, che poi la stanchezza mi faceva subito dimenticare: un rumore lieve come di fuggente. Alla terza volta compresi cosa fosse, perché, balzato di colpo dal letto coll'arma in mano, pronto a qualche sterminio, fui urtato in pieno petto dal fuggente stesso, gatto o cane che fosse, entrato dalla finestra aperta a divorare i resti del mio pranzo
Poi, più tardi, cosa accadde in quel maledetto paese?
Cominciarono a latrare dei cani, dieci, cinquanta, cento cani, un concerto infernale di cani tutti piccoli, cote esili, acutissime voci, sgarbate e stridenti, senza dignità, senza ritmo, petulanti, pettegole, irose, interminabili. Che notte!
"Sicilia 1898" di Luigi Vittorio Bertarelli
"Sicilia 1898" di Luigi Vittorio Bertarelli